Ricordo
di avere ammirato con autentico stupore, allorch� mi trovavo a far parte
della giuria del Premio Tavolozza d'Oro, nel 1970 a Messina, alcune
portentose invenzioni grafiche di Pietro La Barbiera, LABAR per gli
amici: erano delle composizioni di calcolata precisione micrometrica,
intessute di linee proiettive, muoventi da nuclei formali prefissati con
esattissime scansioni geometriche a struttura modulare, tali da
suscitare con effetti di programmata coerenza ottica, avvalendosi di
accentuazioni o di assorbimenti dei tracciati degli inchiostri, talora
un gustoso avvolgimento vicendevole di cercini, talaltra combacianti
reciprocit� d'incastri curvilinei elaboratissimi nel giuoco di valori
concavi o convessi o imbozzolati nella continuit� plastica delle
superfici. Composizioni, di prestigiosa armonia ideativa, che
richiamavano lontani sapori di aniconiche formelle arabe o di marmoree
trine di rosoni romanici, senza peraltro eludere una propensione di
mistiche simbolizzazioni cosmologiche. Ben venne dunque assegnato al
Labar il primo premio, quella volta!
Di recente, visitando l'artista nel suo nuovo studio in Brianza, mi sono
trovato davanti a delle grandi tele, dipinte con una meticolosit�
disegnativa degna di un Maestro del Rinascimento e cariche di una
suggestivit� eccezionale, per la rigorosa scienza prospettica profusa
nelle sue singolari scenografie, ove prevale il senso di una spazialit�
a perdita d'occhio, dai primi piani all'infinito, nello stacco
dialettico di terra e cielo: un cielo turbolento di nubi o sfilacciato
di vento o aperto ad astratti pleniluni senza tempo ed una terra irta o
cosparsa di schegge rocciose o di crete disseccate o di immemorabili
lastricati, spianata o concava ad anfiteatro litico, tutto creste,
anfratti e lapilli. Davanti a quelle tele, ho avvertito per la prima
volta la sensazione che non ci sia luogo dove ci si possa sentire
inevitabilmente terrestri, pi� che nel trovarsi entro la corica di un
cratere vulcanico spento, allorch� l'erta parete continua, a giro
d'orizzonte, ci stacca dal cielo.
Scene di una visionariet� ossessiva e di estrema concentrazione lirica.
Un gigantesco pugno marmoreo con l'indice drizzato al cielo emerge dal
suolo, ove giace, avanzo fossile, un teschio umano. In una immensa
platea di lastroni sconnessi, un basamento sorregge una misteriosa
scultura biovulata sul davanti ma per il resto chiusa a bozzolo rugoso:
una Dea Sexus. Un levigatissimo uovo di basalto affiora alla luce,
espunto da una concentrica ridda di rocce: sortilegio di una nascita
pietrificata? Isolato su squame di creta disseccata, un dado di porfido
sostiene una lucida sfera. Infisso nel fondo d'un cratere, un rocchio di
colonna scannellata reca un mirabile capitello a volume joniche e,
sull'abaco, un'amigdale scheggiata, ritta verso il cielo come fiamma
pietrificata. Simboli, relitti o allucinazioni premonitorie?
Se � lecito, sulla base dei moderni orientamenti della ricerca
psicanalitica, credere che la radice dell'ispirazione artistica attinga
ordinariamente a quell'immane serbatoio segreto che � la sfera
misteriosa dell'inconscio collettivo e individuale (il serbatoio dei
traumi remoti, degli istinti repressi, delle nevrosi e delle pulsioni
fobiche), resta pur sempre sibillino e imperscrutabile il percorso della
introspezione soggettiva di ogni artista e quindi del manifestarsi, al
livello di una visionariet�
che sconfina nel sogno, dei simboli della sua particolare mitologia. Ma
� d'altronde inevitabile un'indagine siffatta, allorch� si esaminino
delle opere come queste del giovine Labar, ad evidenza vincolate ad una
persistenza onirica dominante. E' stato scritto che il grande Heinrich
Schliemann fu spinto alla ricerca archeologica per il trauma della morte
prematura della madre, simbolizzata inconsapevolmente in quella civilt�
omerica sepolta, ch'egli ha riportato alla luce nei suoi scavi
inarrestabili a Troia, Micene, Orcomeno e Tirinto, che hanno gettato le
basi della moderna conoscenza della civilt� egea. Chi pu� dunque
escludere che, ad esempio, non sia da collegare con la scomparsa precoce
del padre, ingegnere, il fatto che, a livello psicanalitico, il giovine
Labar, inconsapevolmente, simbolizzi ad esempio nel capitello fonico
(elemento tra i pi� perfetti e significativi dell'antica tradizione
architettonica mediterranea) il padre che vorrebbe riesumare, cos� come
lo Schliemann si accaniva a riesumare la civilt� omerica, simbolica
madre della cultura europea nei suoi tempi di amori neoclassici? Non si
dimentichi, a parte ogni illazione, che il Labar � messinese, e pertanto
si porta nel sangue l'eredit� storica della Magna Grecia, come tutti i
siciliani. II fatto, poi, che la sua formazione scolastica lo ha, fin
dagli inizi, abituato alla precisione del calcolo geometrico, mi pare
elemento estremamente determinante nella costituzione intima della sua
ispirazione artistica, che, oggi come ieri, si ravviva alla linfa d'un
tessuto connettivo storicamente nobile ed anzi ineguagliabile, nei suoi
eterni valori estetici.
Giuseppe Consoli
Direttore nella soprintendenza ai monumenti della Lombardia
|
|
|